Repubblica.it - di Antonio Gnoli

11 Novembre 2018 - Intervista da La Repubblica.it - di Antonio Gnoli

Nel raccontare la sua vasta esperienza musicale Nicola Piovani predilige di solito i toni levigati e senza scosse. Ma dopo due ore di conversazione, rintanati in un caffè, non sono più così sicuro che il paesaggio descritto non presenti qualche problema di aggiornamento. Intendiamoci, Piovani è un uomo di sinistra e più volte tende a ribadirlo.
Ed è chiaro dunque che le idee di progresso e libertà continuano ad essere le sue stelle polari. Ma è come se brillassero con minore intensità.
C’è un’immagine che mi colpisce come una strana ripartizione delle fortune della vita ed è quando mi parla dei piroscafi che ai primi del ’900 lasciavano Genova con rotta New York: «Mi colpiva che i passeggeri di terza classe potessero salire sul ponte solo quando i ricchi erano a tavola. In quell’ora d’aria una parte di essi si dirigeva a poppa, guardava la distesa di mare e quello che aveva lasciato alle spalle. La rimanente correva a prua. Il mare era lo stesso, ma loro erano lì a sognare tutto quello che di nuovo avrebbero visto. Lei mi chiede dove mi sarei diretto? Sono sempre stato un uomo di prua. Che predilige il futuro. Oggi con qualche problema in più perché la nave su cui stiamo rischia di affondare». Piovani non è affatto un pessimista. Ma il pessimismo è in questo tempo che viviamo, nelle cose che ascoltiamo, in quella sterzata che pochi avrebbero previsto. Non sto parlando di politica ma di vita.

Bisognerebbe stare a prua in una notte stellata. E invece c’è molta nebbia, non trova?

«Troppa, al punto che è difficile vedere cosa si staglia oltre. Posso immaginarlo. E se lo faccio mi vengono i brividi. Come quando da bambino mi lasciavo andare al nero delle favole». 

Lo dice quasi turbato. Come ricorda oggi il Nicola di allora?

«Preferisco non pensarci: mi imbarazza. Mi mette a disagio guardare le foto dell’infanzia o, peggio, dell’adolescenza».

Sono gli anni in cui elabora un rapporto con la musica?

«Papà mi trasmise l’attrazione per la musica. Suonava la cornetta nella banda di Corchiano, il suo paesino natale nel viterbese. Alle spalle aveva la terza elementare e di sicuro non ho corso il rischio di un’educazione intellettualistica. Mia madre cantava in casa e accudiva tre figli maschi oltre il marito. Cantava e si commuoveva. Se avessi avuto dei genitori professori o musicologi forse avrei capito meglio e prima le grandi partiture. Ma probabilmente sarebbe stato più tenue l’amore sensuale per la musica».

Si emoziona quando scrive o dirige musica? 

«Mi emoziono per molte cose: per una musica che non conoscevo o magari riascoltando la Butterfly; per i figli che crescono, per un primo piano di Anna Magnani, per una grande giocata di Lionel Messi o per Muti che dirige Verdi. E, in certi momenti, anche per la musica che compongo e che considero un autoritratto fatto con i suoni».

È così forte l’identificazione?

«Non so quanto valga la mia musica ma di certo so che mi assomiglia. Ne ho scritta in tanti stili, con tante destinazioni, con diversi obiettivi: ma sempre ho tenuto conto del principio di lealtà».

Trova così importante la lealtà nell’arte?

«Come diceva Eduardo: “Si possono raccontare bugie alle donne ma non alla propria arte”. Una mia partitura, comunque sia riuscita, non racconta bugie, racconta me stesso. Se risulta brutta vorrà dire che sono brutto io. Ma non potrei scrivere diversamente».

Il suo nuovo lavoro, un cd appena uscito, si intitola “Piovani dirige Piovani”. È molto autoreferenziale?

«Dirigo quasi esclusivamente mie musiche. E non per eccesso di protagonismo. Per spiegare a un’orchestra come si suona l’incompiuta
di Schubert bisogna avere qualcosa di interessante da dire.Tecnicamente non sarebbe difficile, ma inoltrarsi in quel territorio
della musica che è stupore e mistero, e poi tradurlo per l’orchestra, è impresa per la quale mi sentirei inadeguato».

Questo suo lavoro è un omaggio a tre registi italiani: Taviani,Benigni e Fellini. Come è stato il rapporto?

«Lavorando con personalità così potenti provavo a dare il meglio di me, ma alla fine mi accorgevo che è meno di quello che avevo ricevuto da loro. La creatività a quei livelli è contagiosa».

Fellini ha chiuso un’epoca?

«Per il cinema ha chiuso un certo modo di sognare. Tutta la sua persona era straordinaria: la sua voce, la sua arte, la capacità di ridere e di farti ridere. Sapeva ascoltare tutti: dai poeti ai macchinisti. Aveva il dono di farti sentire straordinario, di convincerti che tu eri il miglior musicista del mondo. Lo faceva con tutti i collaboratori».

L’Oscar per “La vita è bella” l’ha cambiata in meglio o in peggio?

«Diciamo che è cambiato il rapporto degli altri con me. Non mi pare che sia invece cambiato il mio rapporto con gli altri. L’Oscar ha fatto crescere l’attenzione attorno a me e si sono moltiplicate le richieste.Ma il mio rapporto con la scrittura musicale non è mutato: scrivo sempre a matita, cancello con la gomma; le paure sono le stesse, così le certezze e le insicurezze».

Avverte mai il senso del fallimento in ciò che fa?

«Un fallimento può essere un’occasione di crescita. Un tempo a teatro si usava la parola “fiasco”, è più bella di “flop”. Non c’è artista che non sia cresciuto subendo più di un fiasco. Dopotutto, esaltarsi per un proprio successo può essere molto pericoloso».

Scrivere musica da film quanto può diventare un limite per un compositore?

«Per me è una domanda irricevibile». Forse non lo è per Ennio Morricone. «Conosco bene i suoi dubbi e tormenti. Ricordo un suo concerto a Parigi. Alla fine venne giù il teatro. Lo raggiunsi in camerino. Era commosso. Gli dissi: la tua è stata grande musica del ’900 e non serie B. Ti sei convinto? Comincio a farci un pensiero, mi rispose».

Si può parlare di musica?

«È un’arte sottratta al visibile. Non ha concetti. La sua lingua non prevede contenuti, comunica solo aggettivi e avverbi. Parlarne è difficilissimo. Ma vorrei provare a sfidare questa dura legge».

In che modo?

«Ho immaginato quattro o cinque concerti tra Natale e Capodanno all’Auditorium a Roma e poi altrettanti tra l’inizio del nuovo anno e la Befana al teatro Parenti di Milano, dal titolo La musica è pericolosa, dove suono e parlo delle mie composizioni».

Ha lavorato anche nel campo della musica leggera?

«Sì, con molta curiosità e soddisfazione».

Come definirebbe una canzone?

«Una piccola eternità travestita da effimero. Conta molto lo spirito degli anni in cui una canzone nasce, il capriccio di chi l’ascolta e che l’adotta o la fa sua. Canzoni uscite un anno prima o un anno dopo sarebbero dimenticate. Al momento giusto segnano un’epoca.Ma è vero anche che un’epoca segna una canzone».

 A proposito di curiosità e soddisfazione, come è stato il rapporto con Fabrizio De André?

«Avevo 22 anni quando ho lavorato al primo disco. Con gli entusiasmi e le presunzioni di quell’età».

Lo cercò lei?

«No, all’inizio fu lui a chiedermi di arrangiare dei pezzi. Finì che scrissi le musiche per due album: Spoon River e Storia di un impiegato. Fu un’avventura che durò quattro anni. Credo di non essermi resoconto, allora, della fortuna che mi era capitata».

Cosa intende dire?

«Affrontai quell’impresa con eccessiva sicurezza. Come ho detto,ero molto giovane».

È come se si rimproverasse una certa immaturità.

«I frutti troppo acerbi non sono poi così commestibili». Lo stesso imbarazzo che ammette di provare davanti a una foto di lei bambino?
«Non mi interrogo spesso sul passato, sul disagio che provo davanti a una foto di me bambino. Tutt’al più mi viene da commentare, che quello nella foto non sono io. Non mi piace guardarmi com’ero. Però mi piace vedere com’era quel mondo».

Cosa ricorda?

«Il quartiere popolare dove sono nato e cresciuto: il Trionfale. D’estate, con gli amici, scendevamo verso le mura vaticane. L’attività preferita era intercettare i macchinoni dei ricchi turisti americani: lunghe Cadillac bianche, rosa o turchesi. Aspettavamo che parcheggiassero vicino ai musei e timidamente ci avvicinavamo per notare sul tachimetro la velocità cui andavano. Era un modo per immaginare un possibile altrove, lontano dai panni stesi alle finestre, dagli odori che provenivano dalle case, dalle voci così inconfondibili che da un balcone all’altro si rincorrevano».

Voleva fuggirne?

«No, anzi. Ma era un mondo chiuso. Una splendida comunità,qualcosa che mi ha spesso rammentato la provincia».

Cosa ama della provincia?

«La comunità che non è oceanica, le persone che si conoscono, una lingua-dialetto che fa da collante, il tempo che scorre senza l’ansia di doverlo rincorrere, le chiacchierate serali al bar. Mi dà, invece, un po’ di angoscia l’anonimato della metropoli».

Le piace suonare in provincia?

«I concerti che più ricordo volentieri sono quelli che ho diretto in certi teatri di provincia. Mi capita, se resto il giorno dopo, di essere fermato dalle persone per strada. Mi hanno visto in teatro, non in un passaggio televisivo».

Musica dal vivo.

«È sempre la più emozionante».

Scrive musica per chi?

«Io la scrivo per condividere con il prossimo un sentimento emotivo che ho provato e che a parole non saprei spiegare».

Non pensa che se ne scriva troppa?

«Me lo sono chiesto spesso: perché scrivere ancora quando ci sono concerti di Telemann o di Monteverdi che non abbiamo mai sentito ? Una risposta è difficile perché la musica non ha contenuti, almeno apparentemente. Ma so che Mozart mi racconta qualcosa del suo tempo e Brahms esprime un altro tempo e so che in mezzo c’è Beethoven che racconta il passaggio da un’epoca all’altra».

Raccontare è la parola giusta?

«Beethoven narra gli ideali della Rivoluzione; Stravinsky racconta il ’900. Sono come grandi scrittori, anche se la lingua che usano non è quella del romanzo».

Se non avesse fatto il musicista compositore per quale altro mestiere si sarebbe sentito adatto?

«Probabilmente l’autore teatrale. Mi piace alternare il lavoro per il cinema con il teatro. Quest’ultimo è un modo per rigenerarmi e, forse, anche difendermi».

Da cosa?

«Difendere la propria vita dalla musica quando diventa troppo tecnologica e ripetitiva, dalle parole quando sono solo chiacchiera.
Il teatro è la vera arte del vivente».

Quale parola abolirebbe?

«Ce ne sono diverse. Una che casserei è la parola “creatività”. Ha cambiato significato e ha perso di senso da quando è diventata la chiave ideologica del pubblicitario».

Dunque lei non crea?

«Preferisco dire che costruisco qualcosa con l’intelletto, invento col pensiero. Inventare una bellezza condivisibile con il prossimo è la creatività più preziosa, alla quale aspiro ogni giorno».

Dopo tutto quanto è accaduto si sente ancora un uomo di sinistra?

«La parola sinistra è astratta, multiforme e non vuol dire più nulla. Come la parola popolo o Europa. Mentre sono per un pensiero di sinistra che è quello nel quale mi sono formato negli anni. Un pensiero che sa che esistono le ingiustizie e le disparità sociali. Che non si nutre solo di principi etici ma cerca di trasformarli in fatti».

Quella nave su cui idealmente era salito la vede dirigersi ancora a prua?

«Malgrado tutte le delusioni e smentite non potrei rinunciare alla mia fede nel progresso e nella libertà». 

Sembrano dei paroloni.

«Non diversi dalla parola “Dio”».

Ci crede?

«Credo nella scienza che ha preso il posto della fede. Comunque la mia fede comprende anche il mistero. Non cerco assistenza religiosa.
Ma a volte entro in sintonia con l’illogico mondo del sacro».

In che modo?

«Mi capita di entrare in una chiesa e di spiare i pochi devoti che a fior di labbra parlano con Dio. Sarebbe la stessa cosa, sospetto, se al posto di Dio mettessero l’antimateria o i buchi neri».

Intende dire che siamo sempre attratti dal mistero?

«È uno dei nodi dell’esistenza. Fare musica, teatro o letteratura significa sapere che non te la cavi con le spiegazioni sociologiche. Servono perché agevolano il racconto. Ma non bastano. La verità è che noi viviamo ogni giorno come se fossimo eterni. La mia musica è sulla
soglia tra l’essere ineluttabilmente finito e l’illusione di sentirmi
fuori dal tempo».                             

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